[ trad. it. di G. Oliviero, Bollati Boringhieri, Torino 2013 ]
La traduzione italiana di The Holocaust in Italian Culture (1944-2010) è uscita a ridosso della Giornata della Memoria. L’operazione editoriale, ben comprensibile a livello di marketing, non è perciò meno paradossale poiché il libro, come già è stato notato da Belpoliti, si può leggere anche come un’opera contro la Giornata della Memoria. E non solo perché, come dichiara l’autore, ciò che gli interessa non è tanto ricostruire una “memoria collettiva” quanto piuttosto «i cicli di produzione e ricezione di questo campo di conoscenza e rappresentazione dell’Olocausto in Italia» (p. 19). Il paradosso risiede soprattutto nel fatto che, agendo da storico e sociologo della cultura, Gordon fornisce degli strumenti formidabili contro i rischi impliciti in ogni istituzionalizzazione, e in particolare per scalfire la facciata di semplificazioni e storie edificanti in cui ha finito per consistere la percezione dello sterminio consegnata al senso comune dal chiacchericcio mediatico.
L’operazione con cui Gordon rende giustizia alla complessità del reale comincia fin da subito, nel primo capitolo in cui, illustrando le fondamenta teoriche del suo discorso, l’autore ci ricorda che “la Shoah” non esiste, ma è solo una delle etichette con cui sono stati compresi una serie di fenomeni storici distinti, anche se tra loro connessi e interrelati. Le cinque fasi transnazionali di sviluppo della memoria dello sterminio dagli anni ’40 agli anni 2000, e i quattro diversi significati di “Olocausto” elencati da Gordon – di ognuno dei quali mostra come s’intersechi con problemi specifici al nostro Paese – mostrano una progressione dall’immediato dopoguerra, quando l’“evento-Shoah” ancora non esisteva, alla sua attuale metamorfosi metafisica in “Male Assoluto”.
Al primo capitolo segue un’analisi ravvicinata della storia del Museo della Shoah non ancora costruito a Roma: analizzando ogni particolare della storia e del contenuto del progetto, Gordon non solo anticipa i fili che si intrecceranno nel corpo del libro, ma fornisce anche un primo, esemplare close reading di un prodotto culturale. È infatti attraverso l’alternanza tra capitoli di resoconto cronologico e capitoli incentrati su analisi ravvicinate di singoli oggetti che lo studioso riesce a tenere insieme una materia vastissima, che si allarga dal piano nazionale a quello globale, e che comprende incursioni nella letteratura, nel cinema, nella musica, nella storiografia, nel giornalismo e nella politica.I capitoli che offrono una rassegna panoramica cronologicamente ordinata (il quarto, dedicato agli anni 1944-63, e il decimo, dedicato al periodo 1986-2010) servono a dare rilievo ai capitoli centrali più analitici, dove i diversi elementi che hanno costruito la nostra percezione dello sterminio si annodano intorno a eventi o prodotti culturali su cui si sono sedimentati diversi strati di memoria e conoscenza.
Tra i numerosi “oggetti culturali” analizzati esaustivamente vi sono la “biblioteca” di Primo Levi, il ruolo della città di Roma, i monumenti memoriali, scelte onomastiche specifiche – come l’adozione in Italia del termine “Shoah” al posto del più diffuso “Olocausto” – e formule come quelle della “zona grigia”, forgiata da Levi per aprire un nuovo terreno di riflessione etica e morale ma stravolta e forzata dall’uso giornalistico e politico, o degli “italiani brava gente”, in cui si cristallizza una rappresentazione del passato assolutoria, e perciò perdurata a lungo («Una delle storie che questo libro ha […] la necessità di raccontare è quella della supposta distanza del fascismo e degli italiani dall’Olocausto, e di come questa nozione sembri essere stata totalmente ribaltata sul finire del secolo scorso», p. 32). La quantità di informazioni, la chiarezza di scrittura, la sintesi efficace di concetti e vicende complessi fanno già oggi di questo libro una pietra miliare degli Holocaust Studies in Italia e sull’Italia.
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